INCOMPRENSIONI
L’INTENTO
Ho scritto
quest’articolo dopo molto tempo passato ad osservare i comportamenti di
insegnanti e alunni, nella nostra scuola e non, al tempo della
didattica a distanza.
L’obiettivo era soprattutto di vedere in modo imparziale i problemi di
entrambe le parti e capire se ci possa essere un modo per non peggiorare
ulteriormente la situazione. Mi scuso per la lunghezza, ma ho cercato di
cogliere più aspetti possibili.
IL CONTESTO
Si discute
tanto della didattica a distanza e ancor di più dei problemi
che essa sembra
portare con sé, soprattutto un disagio generalizzato, dietro e davanti
la cattedra. Non sembra però che si faccia granché per capire come limitarne
gli effetti.
Tutto sommato,
però, sappiamo che c’è qualcosa che non
va. Le lamentele arrivano sia dagli studenti, sia dai docenti: in comune, c’è
lo stress per uno stile di vita sedentarissimo e per le routine stravolte (anche a causa delle restrizioni anti contagio). Di sicuro, la nostra salute
non ne sta giovando.
Gli effetti sono diversi, che si stanno trasformando, via via, in cause di ulteriori problemi, e potrebbero scapparci di mano, con esiti non esattamente idilliaci.
GLI STUDENTI
I problemi
degli studenti, grossomodo, sono i soliti, ma amplificati e che ne scatenano
altri ancora. E se prima molti erano solo latenti, ora i loro effetti non sono
per nulla trascurabili.
Le lamentele
principali riguardano la stanchezza psicofisica per lo stare ore e ore davanti
a uno schermo: questo suonerebbe, legittimamente, stranissimo e paradossale a un adulto,
che potrebbe benissimo recriminare quanto tempo passassimo già da prima davanti agli schermi.
Ebbene, non è esattamente così: prima, si stava davanti allo schermo più che
altro per passatempo e saltuariamente, senza concentrarsi troppo, e non pesava
più di tanto. Al contrario, stare continuamente concentrati e con gli occhi
fissi lì sta causando in molti una specie di rigetto, che si manifesta in
stanchezza, apatia o in generale insofferenza.
Risultato? Ci si distrae molto
più di prima.
Poco considerato, ma non meno importante, è l’ambiente: le camere sono diventate a tutti gli effetti delle aule, il che causa non
poco disagio nell’avere un “corpo estraneo” nel proprio spazio personale. In più, c’è la perdita
dell’ambiente scolastico cui si era abituati, inteso come
insieme di persone con cui rapportarsi e confortarsi a vicenda.
Una cosa
fondamentale che manca è proprio la lamentela collettiva, che molto spesso,
dall’adagio “Mal comune mezzo gaudio”, era almeno una magra consolazione,
sapendo di non essere gli unici a provare disagio. In più, era come un
“collante”, la causa di uno spirito di squadra che permetteva di non sentirsi
soli di fronte alle difficoltà. Ora, a casa,
questo si è
trasferito
soprattutto su WhatsApp, col risultato che la matrice di quel contatto è stata
disgregata e filtrata attraverso il mezzo di comunicazione, ormai unico modo di
tenersi in contatto. Questo, però, non colma la lacuna dell’assenza di rapporto
umano (non dimentichiamo che, in quanto umani, cerchiamo tutti più o meno il
contatto tra simili). In ogni caso, con la pandemia che scorrazza allegramente,
il buon senso suggerisce che per ora è meglio evitare.
La situazione peggiora ancora di più considerando ragazzi particolarmente sensibili
o fragili, oltre ai
maturandi. Questi ultimi, infatti, sono soggetti all’ovvia mole di lavoro del
quinto anno, con, in aggiunta, lo spauracchio persistente dell’esame. Il quadro
è completo nel malaugurato caso in cui vi sia coincidenza di queste due categorie.
I DOCENTI
Ovviamente,
tutto questo malessere serpeggia anche tra gli insegnanti, travolti del
contesto turbolento in cui si trovano a dover gestire le redini delle classi.
Essi recriminano, non certamente a torto, difficoltà a spronare la classe, che
spesso appare disinteressata, e un pungente timore di essere presi in giro
durante le verifiche da qualche furbacchione.
I più a rischio,
in questi casi, sono ovviamente, nelle scuole superiori, i docenti alle prese con le prime e le quinte classi.
I primi, trovandosi davanti decine di ragazzini senza
esperienza (per di più
nel bel mezzo di una
pandemia), si trovano di riflesso spaesati e inermi anch’essi, impossibilitati
a costruire un rapporto umano solido con i nuovi
allievi: il che, alla lunga,
potrebbe costituire un grosso
deficit nel rapporto che si
instaurerà negli anni a venire.
I secondi, invece, soffrono per lo stravolgimento del proprio metodo a causa della didattica a distanza, che implica una conoscenza del computer e un radicale cambio di prospettiva, abitudini e metodo. Come se non bastasse, si percepisce in loro il terrore di non riuscire a stare al passo con il programma, per via degli Esami di Stato che incombono. Aggiungendo anche consigli e riunioni di ogni genere, programmazioni delle lezioni, corsi d’aggiornamento e via dicendo, ne risulta, insieme al disagio degli studenti, un mix esplosivo perfetto per causare dissapori e incomprensioni di ogni genere tra i due fronti.
I RISULTATI
Da questo calderone pieno di
sopraffino marciume per i palati più delicati, a uscire fuori è un continuo rimpallarsi di
accuse da una parte all’altra.
Gli alunni,
stanchi ed esasperati, accusano i docenti di non accorgersi di quanto lavoro
debbano svolgere e di non avere comprensione per la fatica fatta per tenersi in
pari. Questi ultimi, a loro volta, possono
imputare alla classe scarso interesse
e si sentono non di rado soli e impotenti, come se si stesse
parlando al muro, oltre ad addurre ovviamente le proprie tesi
Ne viene fuori
un circolo vizioso, in cui ciascuna delle due parti, focalizzandosi solo sui
proprî problemi, sopraffatta dallo stress ed emotivamente provata dalle vicende
collettive e a volte anche individuali, finisce per pensare di essere l’unica a
soffrire, o comunque quella che sta soffrendo di più. Si nota un vittimismo che
a tratti sfocia nell’esaltazione quasi masochista delle proprie sofferenze,
quasi fosse qualcosa che, a parte se stessi o pochi altri, nessuno all’esterno può comprendere. Il rischio è che sorgano
incomprensioni che non fanno
altro che aumentare la già presente spaccatura tra educatori ed educati.
Ma a che vale
tutto questo? Pensiamo davvero di poter
concludere qualcosa o che questo comportamento
possa avere qualche
utilità? Ci aspettiamo per caso che gli altri abbiano pena di noi e lodino quello che nella
nostra testa è un integerrimo senso del dovere, quando, dall’esterno, sembra
invece che ci stiamo solo crogiolando nella nostra sofferenza? Non so, ci
aspettiamo forse una qualche lode per questo?
La cosa
assurda, tra l’altro, è che, al culmine della frustrazione, si potrebbe finire
a cercare a ogni costo qualsiasi
colpa nell’altro, riducendolo a capro espiatorio e arrivando addirittura a elaborare le più strampalate teorie secondo cui, dall’altra
parte, si stia incessantemente cercando di sabotarci.
Davvero
vogliamo ridurci a cercare a ogni costo qualcuno a cui dare la colpa,
arroccandoci ancor di più sulle nostre
tesi e rifiutando di comprendere, come stiamo vedendo
fare in questi ultimi tempi a complottisti,
negazionisti e più in generale analfabeti funzionali?
Seriamente
vogliamo ridurci a diventare coloro che, non senza ragione, in questi tempi ci
divertiamo a deridere?
Qui non si tratta
di condannare un atteggiamento: è un dato di semplice osservazione del
comportamento umano, il fatto che chi è ridotto in una condizione di grande
disagio, alla lunga, come in un meccanismo di difesa, finisca per rispondere
all’ambiente che lo circonda in maniera impulsiva
e spesso scriteriata, o, peggio, distruttiva. Molto spesso, le emozioni
in un momento di disagio possono
davvero distorcere la realtà agli occhi di chi le prova. C’è chi
finisce a inventarsi teorie in cui si sente braccato
continuamente da un mondo che vuole solo che soccomba; oppure, chi nega
direttamente che il problema esista, nascondendo la testa nella sabbia, come
(erroneamente) si suppone facciano gli struzzi.
Tuttavia, è
comprensibile: siamo animali, fatti di carne, istinti ed emozioni, di sicuro
non di ferro o di pensiero. Non possiamo aspettarci di poter sopprimere totalmente queste pulsioni, o pensare che non esistano, o
volutamente ignorarle, sperando che non ricompaiano.
Non ha molto
senso pensare di avere un interruttore per spegnere ogni sentimento, anche
perché ogni essere umano è diverso dall’altro (chi più impulsivo, chi meno, chi
per fortuna, in questi casi, dotato di un sangue molto più freddo).
L’errore, qui,
è non considerare quanto complesse siano le dinamiche, finendo per
generalizzare in modo molto grossolano. Così, riesce difficilissimo trovare una
soluzione
applicabile a molti: meno parametri si hanno per descrivere il problema, meno soluzioni si riescono a trovare che rispondano alle esigenze di ciascuno in modo almeno sufficiente.
COME COMPORTARSI
Una cosa utile
sarebbe cercare un po’ di tempo per guardarsi dentro, almeno per sapere del
proprio malessere, senza che esso ci divori dall’interno e ci renda suoi
succubi. Non è facile, nemmeno scontato, ma cercare di descrivere a se stessi
un problema, invece che subirlo passivamente, è il primo passo per pensare
anche solo come limitarlo o a convivervi (ovviamente senza scadere nei loop di pensiero di cui sopra).
Ma non è ancora
abbastanza: pur raggiungendo un profondo livello di introspezione (comunque
molto utile), è doveroso ricordare che molti guai sono dovuti, in prevalenza, a
una serie di dinamiche a noi esterne, molteplici e per giunta
spesso intrecciate tra loro; il che
ovviamente complica non poco la ricerca di soluzioni.
Tra l’altro, la
didattica a distanza, tanto disprezzata, non andrebbe trattata da capro
espiatorio, ma da semplice mezzo, oltre che da dolorosa necessità. E non è
certo da additare come causa del disastro, come spesso si sente dire della
tecnologia (altro mezzo) da parte degli anziani o in generale di chi non la
conosce.
Al contrario, oltre
a muovere critiche (a patto che siano sensate e ben articolate, però), serve
considerare che la reazione di rigetto largamente diffusa non è per la
didattica in sé. Essa, suo malgrado, è
divenuta una specie di simbolo delle abitudini stravolte e alle sensazioni di
smarrimento. Infatti, spesso, se si è in una situazione percepita come
pericolosa, ciò che si cerca di fare è
in primo luogo
difendersi attaccando o scappando, non certamente
fermarsi a riflettere.
Eppure, la didattica a distanza non costituisce un pericolo, perché si può interpretare come un nuovo strumento con cui bisogna ancora prendere confidenza. L’antico recita che il bisogno aguzza l’ingegno e, proprio adesso, nella situazione in cui ci troviamo, potremmo riuscire, con un po’ di creatività, a trovare nuovi espedienti per gestire la situazione.
LO PSICOLOGO
Un ulteriore
aiuto, che non molti tengono in conto, per ignoranza o pregiudizio, ma di
enormemente utile, viene dagli psicologi.
Solitamente, le
reazioni al nominarli sono diverse da giovani ad adulti. Da una parte, gli
studenti e in generale gli adolescenti, nelle frequenti crisi personali,
potrebbero indursi a credere che nessuno possa capire il loro dolore,
sprofondando sempre di più in una spirale di
pensieri dannosi, vittime
delle proprie insicurezze e spaventati all’idea
che qualcuno possa quindi giudicarli.
Dall’altra,
docenti e adulti potrebbero avere lo stereotipo, ancora diffuso, dello
“strizzacervelli”, del medico dei pazzi, ritenendo il rivolgersi allo psicologo
come un fallimento personale o un’ammissione implicita di essere dei pazzi da
manicomio.
In realtà, il
sostrato di queste opinioni, in apparenza diverse, potrebbe essere la paura di
mettersi a nudo, di esporre le insicurezze davanti a un estraneo, rendendosi
vulnerabili. In alcuni, le reazioni possono essere anche di rifiuto: a nessuno,
infatti, piace che qualcuno gli smonti tutte le sue costruzioni mentali, un po’
vedendo quest’atto come un attacco ad
personam.
A dir la verità, ciò che essenzialmente fanno gli psicologi è, sulla base delle informazioni ricevute, offrire nella maniera più impersonale possibile una visione del mondo da un’altra prospettiva, allo scopo di far comprendere che ciò che si vede è, spesso, solo un frammento di ciò che realmente si ha di fronte. In soldoni, avere qualcuno che, senza giudicare, faccia comprendere che si può vedere il mondo con occhi diversi, meno distorti dalla paura e dallo spaesamento in un momento in cui abbiamo perso la bussola.
CONCLUSIONI
Un ultimo
(perché sennò questo articolo lungo quanto un papello diventerebbe quasi un trattato) consiglio che si potrebbe
dare, che poi più che altro è un’esortazione, è: aiutiamoci! Per quale motivo, se già siamo tormentati dalla
pandemia, dobbiamo pure avere contrasti del tutto inconcludenti, quando
possiamo benissimo fermarci a riflettere per trovare anche solo un briciolo di
idee e far sì che non vada tutto completamente a farsi benedire?
Mi appello ai
miei compagni studenti: dicono di noi
che siamo dei vulcani di idee, che rispetto agli adulti
abbiamo ancora un filo di speranza di poter cambiare
le cose, che la nostra conoscenza della tecnologia è
un’arma potentissima a nostro favore.
Perché non
sfruttarle per trovare, ognuno per quanto possa, qualche idea che possa giovare
in primis a noi e poi alla comunità in cui bene o male ci tocca convivere? Perché
non dar forma alle nostre idee in qualcosa che possa ispirare i nostri
compagni e di rendere consapevoli i docenti che non siamo stupidi o scansafatiche?
Vi consiglio
anche un’altra cosa: non permettete mai al vostro astio per un docente di farvi
odiare la sua disciplina che invece apprezzereste. È come voler distruggere
tutti i cristalli di Murano solo perché una volta vi siete tagliati per sbaglio
con un bicchieraccio di vetro scadente.
Onde evitare,
vi consiglio di tagliare completamente fuori dai vostri pensieri l’immagine del professore e tutte le sensazioni negative che comporta. Poi,
cercate ogni motivazione per cui la materia non sia poi così male, compensando
le opinioni negative; fatto ciò, immergetevi nelle parole di ciò che leggete,
come se lo steste vivendo,
senza pensare che ci sia una verifica o che altro.
Sono poche
dritte, ma il succo è di imparare ad apprezzare sinceramente qualcosa, evitando
di farsi condizionare dalle cattive sensazioni che dà chi, questo qualcosa, ve
lo presenta.
Ai docenti,
invece, chiedo di essere quanto più vicini emotivamente a noi, di darci qualche
consiglio e rassicurazione se ci vedete fuori rotta; di non pensare sempre che vi stiamo prendendo in giro (spoiler:
dirlo apertamente è tanto inutile quanto più sprone a farlo per sfida), perché
chi è onesto con se stesso non tollera queste accuse cieche e generalizzate.
Più che mai in
questo momento, non cristallizzatevi nel vostro ruolo di professionisti,
dimenticando il vostro ruolo essenziale di educatori. Non buttatevi giù, voi in
misura ancor più larga rispetto a noi, e resistete ai malumori che, a volte, lo
stravolgimento del consueto modus
operandi possa provocarvi: noi ci accorgiamo subito che c’è qualcosa in voi
che non è come prima e queste “bad vibes”
possono influenzarci molto negativamente a loro volta.
Aiutandoci
magari non concluderemo molto, ma almeno avremo ristabilito un dialogo e
potremmo resistere meglio nei periodi di difficoltà. Altrimenti non ci vorrà
molto prima di iniziare una lenta e inesorabile deriva.
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